A noi pediatri serve un piano (e il lato umano)

Lucia Peccarisi è la pediatra di un bambino con Deficit di dopamina beta-idrossilasi: lotta ogni giorno per organizzare le cure necessarie e per dare sostegno alla madre

La sua storia mi è stata presentata dalla mamma. Era appena stata dimessa dopo il parto mentre il suo bambino era ancora ricoverato per alcuni problemi motori manifestati alla nascita. Le avevano parlato di me e così era venuta a trovarmi: voleva conoscermi e chiedermi se fossi disponibile a occuparmi di suo figlio. È questo che vuole una famiglia come prima cosa: un riferimento sul territorio. Le ho detto sì quella volta e l’ho sempre fatto in questi 14 anni in cui sono stata e sono con forza la pediatra di un bambino con malattia rara.
 

Il mio paziente è nato e cresciuto con problemi di natura motoria, e man mano che cresceva era evidente che non stesse seguendo in modo regolare le tappe dell’età evolutiva. A 15 mesi, con il vaccino per morbillo parotite e rosolia ha avuto crisi convulsive. Inizialmente pensammo fossero dovute alla febbre ma poi si evidenziò una ipertermia che non era controllata. Fu ricoverato. Alla Neurologia dell’ospedale di San Giovanni Rotondo emersero gravi malformazioni cerebrali ma la situazione non era chiara allora indirizzai la famiglia al Besta di Milano dove diagnosticarono il Deficit di dopamina beta-idrossilasi e iniziarono subito la terapia. Ma la diagnosi non è stata mai certificata così tuttora il bambino non rientra nella Rete delle malattie rare.


Quando aveva circa 5 anni, è rimasto orfano di padre. E così la sua mamma è rimasta sola. Ho lottato affinché fosse data la possibilità di frequentare una struttura semi-residenziale. Così è stato per lungo tempo. Ogni mattina era al diurno, faceva fisioterapia al Centro Medea di Brindisi. Era lì quando ha avuto una broncopolmonite ab ingestis: non era la sua prima polmonite, lo avevo sempre curato a casa ma quella volta fu necessario il ricovero nel reparto di Pediatria di Brindisi. Dopo le dimissioni, a 24-48 ore, ebbe un altro episodio di desaturazione e così lo feci portare al Giovanni XXIII dove venne fatta una Peg e una tracheotomia. Da quel momento non ha più potuto frequentare il semidiurno. 


Prima che venisse dimesso, la mamma mi ha confidato la sua paura nel dover gestire da sola un bambino con Peg e tracheotomia. Era un carico enorme e ho combattuto per aiutarla. La risposta è arrivata, da una dirigente di struttura adorabile, ora in pensione. Abbiamo ottenuto un ricovero di transizione in un hospice. Non la struttura ideale, visto che si tratta di un luogo per adulti, per persone da accompagnare a una morte serena. Non era il caso del mio paziente ma ha consentito di aiutare la mamma in questo nuovo percorso di cura. Anche lì, ho continuato ad assisterlo e abbiamo avuto un’accoglienza e un’attenzione splendida, compreso il sostegno di uno psicologo per la mamma che ha così avuto modo di prendere consapevolezza della nuova gestione.


Dopo due anni è tornato a casa, in Assistenza domiciliare integrata (ADI). Dall’ASL abbiamo avuto sempre tanta attenzione, e tutto quanto richiesto: l’elevatore, la carrozzina, la sensibilità. Tuttavia l’ADI non è gestita direttamente ma è esternalizzata, dunque attualmente è a cura di una cooperativa dove spesso il personale infermieristico è di passaggio, o giovane o privo di esperienza. Inizialmente veniva anche richiesta la presenza fissa della madre, ora è stato chiarito che può allontanarsi tuttavia si trova spesso a dover dare lei indicazioni all’infermiere di turno perché magari è appena arrivato e non sa come fare. Questa è una grande necessità. C’è il Piano nazionale delle cronicità, ci sono le linee guida dell’ASL, c’è la delibera regionale di istituzione dei Nuclei di assistenza territoriale (NAT), sulla carta è tutto previsto ma richiede attuazione. La realtà è fatta di personale non sempre adeguatamente formato. Io come pediatra ho bisogno di queste persone, ho bisogno di professionalità a supporto del caregiver. Ho bisogno di persone in grado di fare un lavoro di equipe, di fare audit, di aiutare la famiglia. Di dare un supporto qualificato e non solo dal punto di vista sanitario ma anche umabno. Persone capaci di ascolto.


Ci vuole un’organizzazione, per qualunque cosa. Dal vaccino alla visita per il riconoscimento dell’ipovisione, fino alle cure odontoiatriche. Non posso organizzare tutto al momento, ci vuole un piano assistenziale. Io sono il fulcro, devo governare la situazione, ma non posso non sapere quale stato governo, non posso farlo senza corona. Ho bisogno di un’organizzazione a supporto, di una presa in carico totale, di una rete di professionisti attorno a me. Occorrono equipe multispecialistiche con competenza pediatrica a sostegno della cura di bambini con bisogni speciali sul territorio.


E non sottovalutiamo il punto di vista psicologico. Penso che noi pediatri avremmo bisogno di una formazione specifica. Io ci sono per questa mamma, ci sono h24, e faccio quel che posso anche sotto l’aspetto psicologico ma lo faccio d’istinto e per affetto, non ho specifiche competenze che invece in casi particolari come questo sono necessarie. 


L’aspetto umano è fondamentale, da parte di ogni figura di cura. In ospedale, per esempio, è stato deciso per la Peg e la tracheotomia ma è stato spiegato alla mamma cosa avrebbe significato per suo figlio? E per lei? Sono state presentate tutte le opzioni? Magari la madre avrebbe preferito avere la bombola dell’ossigeno a casa, non è certo ma sono tutte ipotesi da valutare. Specie in un caso come questo, in cui parliamo di un bambino che non è presente cerebralmente ed emotivamente. Ci deve essere una scelta consapevole, altrimenti prolunghiamo una sofferenza senza alcuna prospettiva. E da avere un malato ne ritroviamo due, tre. Meno tecnicismo e più umanità aiuterebbero la famiglia a vivere meglio il peso della condizione. Ecco, in questo mi sento sola. E invece questo ci vuole, prima l’attenzione umana, poi quella medica.

Data di pubblicazione:

10/03/2022

Ultimo aggiornamento:

10/03/2022