Il passo del funambolo: alla ricerca dell’equilibrio negato dalla malattia

Giuseppe ha 37 anni e la sindrome di Erdheim-Chester, una malattia che comporta diabete insipido, una mutazione genetica e problemi nel camminare.

Ero un ragazzo timido, timoroso, diverso da quei coetanei così spigliati che avevano fatto esperienze all’estero. Affrontai le mie paure e partii per un Erasmus a Parigi, cercai casa da solo e per sei mesi vissi in Francia. Uno dei periodi più felici e importanti della mia vita. Appena rientrato, a un mese dal mio 23mo compleanno, comparve il primo sintomo della malattia. Urinavo tanto e bevevo tanto. Urinavo ogni ora, anche di notte, e bevevo più di 11 litri di acqua al giorno. Se ne bevevo meno avevo sete. Non diedi peso a questo sintomo, avevo davanti a me il traguardo della laurea specialistica in Filosofia. Andai avanti così, a bere e studiare, con una lieve febbre sempre presente. Dopo la laurea, la mia sete d’acqua divenne anche sete di informazione. Volevo capire.
 

Il mio primo ricovero fu a San Giovanni Rotondo dove però non ci furono evoluzioni, con un sintomo così generico la diagnosi è molto complessa. Al Policlinico di Bari c’è stata una prima svolta quando, sottoponendomi alla prova dell’assetamento (circa 12 ore senza bere e monitorando la concentrazione delle mie urine) identificarono il diabete insipido. Fu molto importante. Anzitutto perché emerse che la mia sete era un bisogno fisiologico, non psichico come un medico in precedenza aveva ipotizzato parlandomi di potomania. Fu poi fondamentale perché iniziai subito la terapia (Minirin) che ancora oggi seguo e che da allora controlla questo sintomo.


A questo punto bisognava comprendere la causa della febbre e del diabete insipido, feci molti esami tra cui la risonanza magnetica che evidenziò lesioni al cervello, parlarono di istiocitosi e mi diedero il cortisone, 10 mg al giorno. Intanto mi informai su dove poter approfondire. Così andai all’Istituto neurologico Carlo Besta di Milano. Qui mi fecero radiografie agli arti e per la prima volta mi parlarono della sindrome di Erdheim-Chester (ECD), malattia rara che colpisce in genere fra i 40 e i 60 anni di età. La diagnosi poteva arrivare con la biopsia di un campione di tessuto cutaneo o osseo. Io avevo in quel momento una pustola, mi era già capitato che comparisse e scomparisse spontaneamente. Così fu un esame per nulla invasivo. Il dermatologo confermò il sospetto: si trattava di ECD.


La terapia indicata era l’interferone. Facevo un’iniezione a settimana e per me fu disastroso. Avevo sempre febbre, dimagrivo molto ed era peggiorato un altro sintomo che la patologia mi causa: la mancanza di equilibrio nella marcia. Per due anni l’ho preso senza lamentarmi perché sapevo che era l’unica strada percorribile. A Milano però mi avevano detto che a Firenze si occupavano di questa malattia e a Firenze mi indirizzarono a Parigi, all’ospedale Pitié-Salpêtrière. 


Parigi, il luogo dove più ero stato felice, ora tornava a essere decisivo per la mia vita. Il 3 gennaio 2013 mandai una mail al dottor Julien Haroche, il maggior esperto di ECD in Europa. Mi rispose tre ore dopo, una disponibilità unica: subito mi propose di sentirci l’indomani via telefono per organizzare il ricovero. Il mio francese era arrugginito, perciò gli chiesi di sentirci via mail. Un mese dopo ero in Francia, dove feci altri esami e dove non mi fu tolto l’interferone. Anzi, Haroche lo aumentò poiché disse che nei soggetti con lesioni cerebrali, come me, alcuni farmaci hanno problemi a superare la barriera ematoencefalica. Con l’aumento della dose stetti peggio, autonomamente decisi di ridurlo e quando qualche mese dopo tornai da lui gli dissi: La terapia è peggio della malattia. Primum non nocere, mi rispose, e così arrivò la svolta. Mi parlò di un nuovo farmaco e mi mandò a Parma, dal dottor Vaglio, ora trasferito al Meyer di Firenze dove annualmente vado per il controllo. Da allora assumo Vemurafenib, facendo annualmente richiesta di autorizzazione alla Regione, con cui non ho mai avuto difficoltà. È un farmaco che con me funziona molto bene, è legato infatti a una mutazione genetica, BRAF, individuata a Parigi con l’invio di quel campione bioptico prelevato tempo prima. Una piccolissima porzione di pelle è stata quindi determinante sia per la diagnosi sia per la scelta della terapia adatta.


Nel 2017 le analisi del sangue hanno evidenziato livelli del fegato alti per cui è stato necessario sospendere il farmaco per sei mesi. La patologia è tornata facendomi perdere tutto ciò che in tre anni avevo guadagnato in termini di equilibrio e dunque di autonomia. Tutto perduto nel giro di tre mesi. Il lato positivo è che quando ho ripreso l’assunzione i sintomi sono nuovamente scomparsi. Ora mi hanno consigliato di fare ogni tanto una piccola vacanza dal farmaco, per tre settimane.


Il problema più grosso che riscontro è l’isolamento. Fino al 2014 pensavo di essere unico nel mondo. Cercando su internet ho trovato la ECD Global Alliance, associazione fondata da una signora che ha perso il marito e non si sapeva il perché. Solo l’autopsia rivelò la causa, questa sindrome è infatti rara ma comunque nota dal 1930. I membri dell’associazione si incontrano una volta l’anno e nel 2018, appena ripreso il farmaco dopo l’interruzione, ho deciso di partire per l’America, ho pensato: O ora o mai più. Io, mio cugino che mi accompagnava, e il dottor Haroche eravamo gli unici europei in sala. Lì ho incontrato persone con cui poi sono rimasto in contatto. Durante il lockdown facevamo una videochiamata ogni giovedì e parlavamo di tutto, non della malattia. Quando l’associazione si è incontrata a Milano, l’anno dopo, mi sono offerto come traduttore e ho avuto l’occasione di conoscere anche pazienti italiani. 


È questo ciò che più soffro. Non esco, non ho amici, le persone a me più vicine sono le mie nipoti di 9 e 14 anni. Vivo con i miei genitori ma cerco di mantenermi autonomo, per esempio cucino da solo. Esco a fare lunghe passeggiate nel mio paese, Carovigno (Brindisi), che è pieno di salite e discese. Sono queste, con le scale, a rappresentare il mio limite. La pandemia ha portato isolamento per tutti, per me da quel punto di vista nulla è cambiato: più isolamento di questo cosa poteva esserci? Piuttosto ho avuto una spinta a superare i miei limiti. Mi sono allenato molto con le scale, con le salite, e con il camminare. È questa la cosa più importante, camminare. Il fisioterapista mi ha insegnato il passo del funambolo, non so ancora farlo bene, ma mi impegno e sto migliorando. Poi ho aperto un canale Youtube, dove presento attività didattiche ideate da me. Non lo curo più ma sento che questo potrebbe essere il mio futuro, per quanto sia possibile usare la parola futuro con la mia patologia.


La malattia ti cambia i desideri. Quando stai male vuoi solo stare meglio. Quando stai meglio vuoi fare progetti. Ma quali progetti sono consentiti? Si tratta pur sempre di una malattia di cui non si conosce l’evoluzione. Ora i sintomi sono sotto controllo, ho recuperato in parte l’autonomia, inizio a uscire da solo mentre fino a poco fa lo facevo soltanto in compagnia. Il mio prossimo obiettivo è andare a Parigi da solo. E poi, in Normandia dove un’amica aspetta che io mantenga una promessa fatta dieci anni fa.
Se riuscissi a fare questo potrei pensare di far tutto, anche andare in America da solo: viaggiare, essere di nuovo in relazione, e magari trovare lavoro. Le mie priorità sono la salute, l’aspetto sociale, la realizzazione professionale. Ho paura, certo, ma le paure vanno affrontate. Ne avevo anche prima di andare la prima volta a Parigi ed è stato il mio periodo più felice. L’importante è camminare.
 

Consulta la scheda informativa della sindrome di Erdheim-Chester (ECD)

Data di pubblicazione:

24/02/2022

Ultimo aggiornamento:

24/02/2022