Quando una madre è cura e nutrimento

Ero incinta di dodici settimane quando ho rischiato di perderla per la prima volta. Per un distacco di placenta che mi ha costretta a letto per il resto della gravidanza, dovevo star ferma per proteggerla. È ancora così, mi chiamo Lea e vivo per proteggere Annalourdes, la mia bambina con una malattia mitocondriale, la Wars2. È una malattia rarissima, solo due casi in Italia.

È nata prematura, di 36 settimane, aveva un peso basso e ha perso subito molto. Per questo è stata nella culla termica ma respirava autonomamente, io tiravo il latte perché ogni goccia mi sembrava importante per farla crescere. Poi siamo tornati a casa, lei era apparentemente sana e noi felicissimi. Dopo il primo mese cominciò a vomitare spesso, io mi preoccupavo molto ma i medici dicevano che stava bene. A due mesi sorrideva, a tre aveva iniziato la lallazione, agganciava lo sguardo, era una bambina sveglia. A sei mesi però non teneva il capo dritto e non riusciva a stare seduta, i medici continuavano a rassicurarmi, dicevano che essendo nata prematura aveva un ritardo nella crescita e bisognava darle tempo.


A nove mesi iniziò un tremore alle gambe, un tremore continuo che si interrompeva solo quando dormiva. Corremmo in ospedale dove le fecero ecografia, emogas, elettroencefalogramma e non risultava nulla. Non fidandoci, andammo a Siena dove rilevarono che si trattava di mioclonie e diedero una terapia che però il medico del territorio, di cui ci fidavamo molto, sconsigliò. Disse che le mioclonie sarebbero passate e in effetti i tremori diminuirono. Tuttavia subentrarono stereotipie che mi preoccupavano, consultammo dei neuropsichiatri e iniziò la fisioterapia. A un anno era ferma alla lallazione, non camminava, aveva un disturbo del sonno, disturbi del comportamento, era sempre molto nervosa e allora cominciammo, al Meyer di Firenze, una serie di esami genetici. Non avemmo risposta ma prescrissero un farmaco antiepilettico che avrebbe aiutato la bambina nel disturbo del sonno e che, come effetto collaterale, avrebbe aumentato il suo appetito. Eppure lei andava sempre in ipoglicemia grave. Ci siamo rivolti così al Bambino Gesù di Roma.


Lì hanno trovato una bambina scompensata, scoagulata, con il fegato che stava scoppiando e, conoscendo la letteratura del farmaco che assumeva, hanno subito intuito che fosse una reazione avversa all’antiepilettico, reazione che si può riscontrare in casi di malattia mitocondriale. Un giorno in più di quel farmaco che la stava avvelenando e mia figlia non sarebbe sopravvissuta. Sospesero immediatamente la somministrazione, Annalou fu in prognosi riservata per diversi giorni ma avemmo una risposta, una diagnosi, un nome.


Avevo lottato tre anni per quel nome, avevo bisogno di qualcosa contro cui inveire, di sapere chi fosse il mio nemico. Eppure, oltre quel nome non ebbi nulla più. È una malattia talmente rara che si sa pochissimo della sua evoluzione. Si conoscono i suoi sintomi, come il Parkinson infantile di cui lei soffre. Non riuscendo ad alimentarsi per bocca abbiamo messo la Pej Peg, le frullo il cibo e lo inserisco nel sondino, ma da diverso tempo questo non funziona. È subentrata una pseudoocclusione intestinale per cui tutto ciò che inseriamo resta fermo lì. Per questo da maggio 2020 ha un catetere venoso centrale (CVC) attraverso il quale effettuiamo l’alimentazione parenterale per sedici ore al giorno. Solitamente si fa l’infusione notturna in modo che il paziente sia libero durante il giorno ma avendo lei un disturbo del sonno va continuamente controllata perché sarebbe rischioso se si staccasse qualche filo. Così la notte non è attaccata e io la veglio, la consolo quando ha dolori e urla “mamma, bua”, la cullo fino a che non si assopisce nuovamente. Non dormo da sette anni. Alle cinque sono già in piedi e preparo la sacca, indosso una cuffia per i capelli, sterilizzo tutto, mi lavo le mani tre volte come i chirurghi e igienizzo il piano: non si può rischiare un’infezione. Due volte è stata ricoverata per una sepsi, lei è una roccia e ce l’ha fatta. La preparazione della nutrizione parenterale è una procedura molto complessa, quando siamo state ricoverate le infermiere si sono messe al mio fianco per osservare.


Non sono solo la mamma di Annalou, sono la sua infermiera, la sua operatrice socio-sanitaria, il suo medico. Mi occupo delle medicazioni, curo le piaghe da decupito, la alimento, le cambio il pannolino, lei evacua circa dieci volte al giorno, le do integratori e farmaci, ogni due ore. L’unica cosa che non riesco più a fare è cambiare l’ago di Huber: mia madre le teneva le gambe, il papà le teneva la testa ferma e io cambiavo questo ago a uncino rischiando di prendere il costato. Adesso vengono due infermiere a farlo, una volta a settimana. Purtroppo i cateteri meno invasivi con lei non hanno funzionato perché ha la pelle sottile, i buchi si allargavano e i tessuti non si chiudevano. Ogni volta finiva in sala operatoria e così non c’è stata scelta. Tuttavia la parenterale crea danni ai reni, al fegato, al pancreas, per questo a febbraio torneremo a Roma per un nuovo tentativo con la Peg. 
È una bambina solare ma prendersi cura di lei è un enorme carico, un carico che gestisco da sola, con l’aiuto di mia madre da cui ora vivo poiché la malattia fa anche questo, distrugge le relazioni. Mia madre si occupa della casa, di cucinare, mi aiuta quando le cambio il pannolino, quando le lavo i capelli e occorre tenerla con le lenzuola affinché stia ferma. A causa del Parkinson, non si sa se per le paure o per i dolori, la bambina si agita molto, anche fino a farmi male senza volerlo. Mia madre è la mano che non mi dà l’ASL. Al momento dall'azienda sanitaria abbiamo la psicologa che ogni settimana ci sostiene da due anni, le OSS un’ora e mezza al giorno e la pediatra di mia figlia, la dottoressa Annicchiarico, sempre presente, sempre attenta a osservarla con le videochiamate, sempre pronta a sostenerci. Quindi per il percorso di cura siamo seguiti a Roma, ma fondamentale è la rete sul territorio. La dottoressa Di Gregorio, di Taranto, ci ha aiutati ad avere un rimborso per i ricoveri fuori regione, i nostri sono lunghissimi. Fortunatamente adesso sono diminuiti. 


I suoi dolori sono forti, le sue urla strazianti. Quando vengono le infermiere io dico loro: Cercate di estraniarvi, ma dentro mi sento morire. Giorni fa l’abbiamo portata a Taranto a vedere le luminarie. In auto ha vomitato, e si contorceva per i dolori. L’accarezzavo e le ho detto: “Ora mamma si prende tutto lei il dolore”. Lei con la manina ha fatto il gesto di togliersi qualcosa dalla bocca e darlo a me. 


Con l’aiuto di un’amica, sto scrivendo un libro, per raccontare che la malattia ti cambia ma non è contagiosa. Molti si allontanano, si spaventano. A suo modo, viviamo anche noi una normalità, differente, ovattata. Vorrei dare voce a mia figlia, vorrei dire che questa è la vita e la vita può portare anche una malattia. È una farfalla, mia figlia. L’ho anche tatuata. È come dice quella canzone di Roberto Vecchioni e Francesco Guccini: “Se non potrai correre e nemmeno camminare, ti insegnerò a volare”. Ecco, io sono questo per mia figlia.

 

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Data di pubblicazione:

22/12/2021

Ultimo aggiornamento:

17/06/2022