A volte la vita parte piano, e diventa una Ferrari

Il racconto di mamma Rossella e di suo figlio con la sindrome di Noonan 

Prima di lui c’erano stati tre aborti spontanei. Sono stata a riposo per tutta la gravidanza, al quinto mese era emersa una dilatazione del bacinetto renale ma il ginecologo ci aveva tranquillizzato, il 10 percento dei bambini ce l’ha. Mio figlio è nato a San Giovanni Rotondo (Foggia), desideratissimo, in una giornata molto nevosa e con un pianto poco fragoroso. La sera, mentre lo allattavo ebbe un’ipossia e divenne cianotico. Per fortuna mia madre era con me e lo portò di corsa dalla puericultrice: lo rianimarono e lo tennero una notte nel reparto di Patologia neonatale. Dissero che avremmo dovuto fare dei controlli periodici per questo episodio ma ci tranquillizzarono, anche quando notavo delle anomalie nel volto, per esempio aveva un occhio un po’ più chiuso: “Forse le vuole fare l’occhiolino”, mi dicevano. Al controllo, un mese dopo, venne confermata la dilatazione del bacinetto renale e venne fuori un’anomalia del corpo calloso. La pediatra poi sentì un soffio al cuore che approfondimmo prima a San Giovanni Rotondo e in seguito a Roma. A tre mesi dunque, oltre il problema del bacinetto che comportava infezioni delle vie urinarie, emerse la stenosi della valvola polmonare, era questa che gli dava problemi durante l’allattamento: gli mancava l’ossigeno. La dottoressa di Roma, scrupolosa e intuitiva, chiese di parlare con la pediatra e così, collegando i sintomi con gli aborti che avevano preceduto la sua nascita ipotizzò una malattia genetica. “Ogni cosa ha un nome – disse – e questo nome è Noonan”.
 

Io non capivo più nulla. Mai avrei pensato che mio figlio potesse avere una malattia genetica rara. Allora non avevamo internet in casa, mio marito fece una ricerca in biblioteca. Vedemmo le patologie collegate e iniziò un periodo di forti ansie, di poca comprensione, di non accettazione. Capivamo solo le cure da fare e di grande supporto era la pediatra, Rossella Giovanditti, che è sempre stata un ottimo punto di riferimento. Tutto il resto era sconosciuto o confuso. Io semplicemente ho amato mio figlio anche se non ho capito granché.


All’età di sette mesi, gli fecero un cateterismo cardiaco con dilatazione percutanea della valvola polmonare: era necessario per cercare di evitare l’intervento a cuore aperto, la situazione infatti evidenziava una compromissione non grave. Certo, vederlo così piccolo e pieno di buchi come un colabrodo mi fece impressione ma devo dire che al rientro a casa la suzione del latte era meno difficoltosa e lui non diventava più cianotico. Il valore pressorio nel tempo migliorava e il bambino cresceva, lentamente, ma colmo di tenerezza. Una tenerezza così unica che era lui a darci la forza di prenderci cura di lui, nonostante fosse un grande piagnucolone.


Su consiglio della pediatra iniziammo i trattamenti riabilitativi, psicomotricità e logopedia, presso l’Istituto “La nostra famiglia” Eugenio Medea. Fu molto importante, oltre che per la riabilitazione, anche perché mi diedero alcuni consigli educativi: mi fecero notare che lo viziavo, a me dispiaceva vederlo piangere, e invece era importante anche dire dei no per farlo crescere nel modo migliore. C’erano poi educatrici validissime che ci intrattenevano mentre i bambini facevano i trattamenti e diventava una vera e propria assistenza psicologica. Una di loro, Tiziana, mi mostrò la sua collezione di poesie da lasciare in eredità a sua figlia, mi fece scegliere e mi regalò copia di molti versi, come “La mamma speciale” di Emma Bombeck.
L’ingresso in quel mondo fu determinante perché incontrare tante figure professionali e numerose famiglie ci diede l’idea che ciò che sino a quel momento non ci era apparso normale in fin dei conti lo era. Ci diede l’opportunità di condividere, di consolare anche chi era in una situazione più grave, di sviluppare il nostro senso di solidarietà. Non conta quanto tu faciliti loro o loro te, non ci sono calcoli, ci sono solo i bambini al centro. Quell’apertura ci ha portato a cercare la sindrome in internet e a trovare altre famiglie con cui sono nati rapporti di amicizia. Abbiamo apprezzato la bellezza di avere una famiglia con dimensioni gigantesche perché il fatto di allargare il dolore certo non lo cancella ma lo intenerisce


All’ultimo anno di asilo mio figlio iniziò a soffrire di epilessia e fu sconvolgente. Quando sembrava che avesse cominciato a controllare gli stimoli fisiologici, dopo la prima crisi epilettica invece perse la capacità di controllo. Dopo un periodo di molti esami e nessun miglioramento, incontrammo la dottoressa Lorita La Selva, neuropsichiatra infantile, che ci spiegò che quelle crisi erano in realtà di tipo motorio. Col tempo si ridussero. A nove anni, si verificò invece una iper produzione di eosinofili che provocava grumi nel sangue. Si sospettò la leucemia eosinofila ma per fortuna fu scongiurata. L’episodio fu collegato invece alle reazioni che il bambino aveva a seguito del farmaco antiepilettico. Cambiarono medicinale, ebbe le sue ultime crisi. Poi l’elettroencefalogramma è sempre stato più benevolo e all’adolescenza ha sospeso tutti i farmaci.


La diagnosi certa è arrivata con l’esame genetico a San Giovanni Rotondo quando aveva sei anni. È vero che ormai sapevamo già ma ci diede un senso di pace in più.
A scuola ci sono state molte difficoltà, a parte una meravigliosa nelle scuole superiori, Claudia Montorio, gli altri insegnanti di sostegno li ricordiamo come un incubo. Spesso si trattava di persone prive di empatia o che non avevano esperienza con persone con disabilità e un alto quoziente intellettivo. Una portava il bambino a fare le passeggiate, e invece lui doveva stare in aula ad apprendere con i suoi compagni. “Mio figlio non è la tua dama di compagnia”, le dissi. È stato spesso bullizzato dagli altri bambini per il suo aspetto. Una volta invece fu una mamma, incontrata mentre passeggiavamo in bici, a dirmi: “Ma è vero che tu e la pediatra siete amiche perché avete entrambi i figli malati?” Lo disse davanti a mio figlio, che era piccolo, ma non scemo. Gli fece del male. Penso tuttavia che nel tempo abbia imparato a difendersi.


Abbiamo avuto paura di perderlo a volte, ma siamo andati avanti, abbiamo anche viaggiato molto. Non saremo noi a creargli nuvole, tempeste e pioggia finché non lo vorrà Dio. Noi possiamo essere il suo sole, il sorriso per dare luce e leggerezza.


Oggi ha 23 anni, non prende farmaci, fa le visite di controllo ogni anno a Roma, al Bambino Gesù e all’Umberto I. Ultimamente è risultato un lieve affaticamento cardiaco ma non si parla di aritmia. La nostra esperienza è fatta di medici straordinari in cui abbiamo sempre trovato tutto, professionalità e umanità. Secondo me abbiamo una buona sanità.
Il suo crescere è stato anche il nostro. Anche il progresso culturale ci ha aiutato ad accettare la situazione al meglio. Prima si parlava sempre di normalità e di disabilità. Oggi sappiamo che la normalità è un concetto statistico. Le persone normali sono solo quelle al centro della curva, chi è ai limiti sviluppa altre qualità. Mio figlio è affascinante grazie alla sua spiccata simpatia, la pazienza e la docilità incredibile. Ha una bontà d’animo che lo rende particolare. 


Lui adesso vive a Fiorano Modenese assieme a sua sorella e lavora in Ferrari, si occupa di montaggio motori e ha un contratto a tempo indeterminato. È un lavoro che ha ottenuto al secondo colloquio: il primo non l’aveva superato poi mio marito gli ha suggerito un corso di formazione e l’agenzia interinale, visto questo impegno, lo ha proposto per un nuovo reparto, quello in cui attualmente lavora. Ha difficoltà nella vita sentimentale ma è soddisfatto e fiero della sua vita e della sua autonomia. Lui ha bisogno di fare, e fare da solo, di respirare l’aria con i suoi polmoni.
Si è avverato un sogno, anzi, si è avverato il sogno che non avevamo mai fatto.

Data di pubblicazione:

06/05/2022

Ultimo aggiornamento:

06/05/2022